3 domande a Valeria Vitali

Rete del Dono ha circa tre anni di vita e ha raccolto oltre 2 milioni di euro. Quando è nata l’idea di creare questa piattaforma di crowdfunding?
Running e raccolta fondi: due grandi passioni che sono senza dubbio l’anima di Rete del Dono che, come tutte le cose importanti, nasce per caso.
Vivendo in Inghilterra ho auto modo di conoscere Justgiving, che ho trovato geniale. Ho condiviso l’idea con un amica – Anna Siccardi appassionata di running – e così abbiamo deciso di coniugare le nostre due passioni in quest’avventura. Dico avventura perché nel 2010 la nostra idea era assolutamente pionieristica. In Italia il personal fundraising era terra di nessuno, pratica assolutamente sconosciuta.
A quattro anni dalla nascita di Rete del Dono devo ammettere che il nostro lavoro di sensibilizzazione sul territorio ha dato i suoi frutti. Oggi sempre più organizzazioni non profit valutano di rafforzare la loro presenza online avvicinandosi al crowdfunding, ovvero raccogliendo fondi online a progetto. Non solo, cosa che ci sta molto a cuore è la costante crescita del personal fundraising. Il connubio sport e solidarietà dimostra di essere assolutamente vincente e questa è una grande soddisfazione per noi che ci abbiamo sempre creduto!

Una tua passione è anche la corsa. A tuo parere, perché in questi ultimi anni sono così aumentati i runner, in particolare chi corre per una buona causa?
Il running è il driver indiscusso di Rete del dono. Come dicevo Rete del Dono nasce con un anima running e in questi primi 4 anni abbiamo assistito in presa diretta alla crescita della corsa solidale. Abbiamo lavorato fianco a fianco con le maggiori Maratone italiane per diffondere la cultura della solidarietà tra gli sportivi. Milano Marathon, Maratona di Roma e Venicemarathon in primis – sono i grandi driver della raccolta fondi, con all’attivo oltre 1milione euro di donazioni raccolte.
Stiamo assistendo a un modo nuovo di fare e sentire la solidarietà, una formula che permette all’individuo di diventare il vero driver della raccolta fondi ma soprattutto ambasciatore della buona causa che sostiene coinvolgendo parenti e amici nel proprio gesto di solidarietà.

Cosa ti piacerebbe dire alle imprese che vogliono sviluppare iniziative per migliorare il rapporto con le organizzazioni del Terzo Settore e la comunità locale?
Il mondo corporate si sta avvicinando sempre più alla sport, che è un ottimo strumento per fare team building e aggregazione tra i propri dipendenti. A questo punto associare il sostegno a una buona causa diventa assolutamente naturale. Nel corso di quest’anno sempre più aziende hanno deciso di integrare la pratica del personal fundraising tra le attività di CSR. È significativo notare come il 15% dei personal fundraiser attivi su Rete del Dono siano aziende. Quest’anno in occasione di Milano Marathon sono stati raccolti oltre 70mila euro di donazioni da parte di aziende che si sono attivate facendo personal fundraising a sostegno di una buona causa. Tra le altre citerei: Airplus, EDISON, Egon Zehnder, Europ Assistance, Hogan Lovells, Pfizer Italia, Sky Italia, State Street Bank e Ticket One.Un dato assolutamente positivo che dà fiducia e pone i presupposti per una crescita positiva del settore.

Valera Vitali è laureata in Scienze Politiche presso Università di Pavia, Master in Cooperazione e Sviluppo presso Universitat de Barcelona e specializzazione in Non profit Management, New York University (grant Fondazione Cariplo). In seguito si costruisce una solida esperienza in marketing e comunicazione lavorando all’interno d’importanti agenzie di comunicazione e collaborando con l’Università di Bologna, corso di laurea in Economia delle Organizzazioni Non Profit.

3 domande a Elena Zanella

La situazione di crisi ha provocato un calo generale delle donazioni. Anche le imprese *CSR Oriented *sembrano aver chiuso i rubinetti. Secondo te cosa si potrebbe fare per rivitalizzare il rapporto tra profit e non profit?
Considerare una relazione tra profit e nonprofit solo in termini di flussi di cassa è riduttivo. La difficoltà di non pensare a un rapporto al di là del contributo erogato è ancora questo il limite, purtroppo, rintracciabile da entrambe le parti. Ma è più che comprensibile perché senza risorse economiche si fa poco. I momenti di difficoltà devono servire come stimolo per andare oltre, per pensare in modo diverso a come strutturare una relazione su presupposti diversi e il cui riscontro economico sarà naturale conseguenza e non fine. Provo a spiegarmi meglio: una cosa è chiedere a un’azienda un contributo tout court che servirà per l’acquisto di un bene necessario a svolgere l’attività sociale dell’organizzazione; un’altra cosa è pensare a cosa i due partner possono fare insieme, ciascuno avendo ben presenti i propri specifici obiettivi e, allo stesso tempo, i bisogni dell’altro. E’ certo che il primo approccio richiede meno impegno e, in caso favorevole, dà riscontri immediati, ma è strumentale e si ammortizza con il tempo. Il secondo approccio è più faticoso perché richiede un lavoro diverso, più accurato. In breve, relazionale. Nel lungo periodo, i risultati possono però essere più soddisfacenti e il valore sociale prodotto più interessante. La crisi attuale deve essere uno stimolo per accelerare un processo di maturazione che è comunque in atto.

I social media hanno cambiato la comunicazione finalizzata anche alla raccolta fondi. Quali sono i segnali più interessanti di questo cambiamento?
Noto una crescente attenzione al “cosa si comunica” e al “come si comunica” da parte delle organizzazioni nonprofit. E questa è una cosa buona perché spinge l’ente a fare sempre meglio per far emergere i propri tratti distintivi e, quindi, raccogliere quanto le serve per i propri progetti. Qualche tempo fa, sul mio blog parlavo di eccesso di informazione (vai al post) rilevando quanto la “quasi” gratuità del web favorisse la confusione. Mettevo in guardia sul fatto che “comunicare a costo zero non significa comunque provarci a costo zero”. Comunicando tutto si finisce con il comunicare troppo e così è facile che si ecceda o ci si trovi immersi in un eccesso di informazioni. Meglio scegliere cosa comunicare, dove comunicare (ovvero, qual è il supporto migliore per il fine prefisso), quando comunicare, come e perché comunicare. L’attenzione crescente al taglio dei contenuti di comunicazione, quindi, è un segnale che percepisco chiaro. La cura dell’interazione con l’utenza e alla reputazione in rete sono altri due aspetti di cui cresce la consapevolezza come valori discriminanti tra chi fa bene e chi può fare meglio.

Sul tuo blog dai spesso suggerimenti alle organizzazioni non profit… hai qualche suggerimento anche per le imprese?
Il passaggio dal modello di welfare state a quello di welfare society è un processo delicato ma irreversibile. Lo stato è sempre meno capace di “prendersi cura” della comunità e, nel farlo, ha la necessità che privato sociale e imprese intervengano, ciascuno portando il proprio contributo, in modo integrato. Stiamo parlando di condivisione delle responsabilità. Per quel che riguarda le imprese, significa che nel perseguire i propri obiettivi, ovvero nella ricerca della massimizzazione del profitto, l’azienda deve, allo stesso tempo, tenere conto della società in cui si muove, produce e da cui trae profitto, restituendo alla società stessa – a sua volta – parte del vantaggio ottenuto. Non è più sufficiente, per intenderci, pagare quanto dovuto attraverso le tasse ma occorre impegnarsi attivamente per accrescere la ricchezza del territorio nel quale si opera. Questo si traduce in attenzione crescente al proprio dipendente – fornendo servizi di valore aggiunto che gli permettano di migliorare la propria qualità di vita – e attenzione alla comunità nel suo complesso, attraverso un impegno diretto o in partnership con attori terzi provenienti dalla società civile: le imprese nonprofit appunto. Questa è la direzione imboccata. “Un carisma dona occhi per vedere beni laddove la società vede solo dei mali o dei problemi”: è un principio Francescano che, in questo contesto, ci dice che l’abilità di chi può sta nel vedere oltre il contingente. Questo a beneficio di tutti, a cominciare dall’impresa.

Elena Zanella, consulente, formatore, blogger. Nella comunicazione e nel marketing dal 1992. Nel fundraising dal 2003. Blogger dal 2010. Laureata in Scienze della Comunicazione. Master in Social Entrepreneurship. Socio professionista FERPI. Vincitrice dell’Italian Fundraising Award 2013. Coach al servizio della piccola e media organizzazione nonprofit, dell’ente pubblico e della PA con il progetto SURF, Start Up di Unità di Raccolta Fondi, dal 2014. Sul web all’indirizzo: www.elenazanella.it. Seguila su twitter: @elenazanella

 

Emotionraising

Il termine pone l’accento sulla conoscenza e l’utilizzo delle emozioni per raccogliere fondi. Recenti scoperte delle neuroscienze applicate al marketing e al fundraising dimostrano come il nostro cervello, quando si acquista un prodotto o si fa una donazione, decide in base ad alcune specifiche emozioni. Si attiva infatti quella parte del cervello che si chiama sistema meso-límbico, la stessa che controlla il battito cardiaco, supervisiona i ricordi e reagisce a stimoli e ricompense. Quindi sono le emozioni che ci fanno prendere le decisioni? Quanto è importante saperle governare per spingere una persona a sostenere una buona causa? Utilizzare le sei emozioni chiave (paura, rabbia, tristezza, disgusto, sorpresa, felicità) per trovare armi di persuasione e spingere alla donazione è sempre etico? Forse è necessario cercare un punto di equilibrio tra l’emozione connessa alla gioia del dono e la razionalità finalizzata a far sì che la raccolta fondi di un’organizzazione non sia un insieme casuale di gesti ma abbia un obiettivo definito. Ma alla base di tutto, non ci stancheremo mai di dirlo, ci deve essere il rispetto: il donatore non deve essere considerato un bancomat ma una persona con la quale si crea una relazione.