La protagonista di questa settimana è Daniela Piatti che si definisce “da sempre appassionata di comunicazione d’impresa”.
Nella tua tesi di laurea hai affrontato il tema della Corporate Social Responsibility, in particolare sulla creazione di Valore Condiviso. Spieghi ai lettori di questo blog cosa si intende per “Valore Condiviso”?
La tesi che ho discusso lo scorso anno è incentrata sul modello di integrazione sociale dell’impresa e di creazione di Valore Condiviso elaborato da Porter e Kramer, secondo cui le imprese hanno la possibilità di generare valore economico per sé e al tempo stesso valore per la società e la comunità in cui operano attraverso tre modalità: riconcepire prodotti e mercati, ridefinire la produttività nella catena del valore e facilitare lo sviluppo di cluster locali.
Il concetto di valore condiviso viene abbozzato nel 2007 dai due professori, che sottolineano come le imprese debbano abbandonare gli approcci alla CSR adottati fino ad allora e selezionare questioni sociali che hanno a che fare con il proprio business e integrarle nella loro strategia. E’ solo nel 2011 però che M. Porter e M. Kramer formalizzano il concetto della Shared Value Creation, tramite un articolo sulla Harvard Business Review.
Il Valore Condiviso non è responsabilità sociale in senso stretto, ma un nuovo approccio al perseguimento del successo economico. Non si tratta di iniziative filantropiche, ma iniziative che garantiscono una prospettiva win-win.
Dal punto di vista della conoscenza, almeno in Italia, devo dire che il modello di Porter e Kramer non è così sedimentato e sono ancora meno le aziende che dichiarano di applicarlo.
Vi vorrei illustrare in cosa consistono le tre modalità attraverso cui si può generare Valore Condiviso.
Rispetto alla prima modalità, ossia il riconcepire prodotti e mercati, vi è la constatazione che i bisogni della società insoddisfatti sono innumerevoli e appartengono agli ambiti più disparati: alimentazione e salute, per esempio. È il guardare a questi problemi sociali che può aprire alle imprese nuovi mercati, attraverso la creazione di nuovi prodotti o servizi, in grado di migliorare i problemi e le condizioni sociali.
La seconda modalità per creare valore condiviso è la ridefinizione della produttività nella catena del valore. Relativamente all’uso delle risorse, per esempio, la riduzione da parte delle aziende dell’utilizzo di acqua in tutta la catena del valore genera valore condiviso, in quanto l’azienda abbatte i costi ma allo stesso tempo diminuisce il prelievo di acqua dolce.
L’ultima modalità infine, consiste nel facilitare lo sviluppo di cluster locali. I cluster sono formati da concentrazioni di imprese connesse tra loro, fornitori, terzisti e istituzioni e sfruttano gli asset pubblici della comunità circostante, come le scuole e le strade. Il modo che le imprese hanno per creare valore condiviso, non è isolarsi dalla comunità in cui operano, ma è facilitare lo sviluppo di cluster locali efficienti, per migliorare la propria produttività e nel contempo superare le carenze del sistema che circondano i cluster stessi. Una rete di infrastrutture carente, ad esempio, fa accrescere i costi logistici, così come un basso livello di educazione scolastica richiede dei costi di formazione per le aziende. Migliorando perciò le condizioni del contesto sociale in cui l’impresa opera la stessa potrà ottenere grandi vantaggi competitivi.
Mi piace pensare che la CSR negli anni a venire non sarà più un optional per le imprese ma un vero e proprio modus operandi. Nel testo che hai scritto per presentarti sul sito dei CSRnatives hai proposto questa riflessione. Sei sempre di questa opinione?
Si, certamente! A mio avviso, in futuro, un’impresa che non sarà sostenibile sarà un’impresa che verrà esclusa dal mercato, o meglio, che si autoescluderà. Infatti, i consumatori sono via via sempre più attenti nello scegliere imprese che operano in modo sostenibile e con sostenibile chiaramente intendo sia dal punto di vista sociale, che ambientale, che economico. Perché, non dimentichiamoci che l’impresa non è un’istituzione filantropica e pertanto non deve comportarsi come tale, ma deve garantire la propria sostenibilità economica.
Molte imprese attualmente hanno messo in atto un atteggiamento di tipo difensivo rispetto all’integrazione della CSR nella loro strategia aziendale, perché tendono a considerarla come filantropia e dispendio di denaro. La CSR può essere considerata sì dispendiosa e poco fruttuosa quando le iniziative sono di interesse generico per la società ma lontane dal core business aziendale.
Ma se tutte le aziende facessero delle scelte oculate e integrassero nella loro strategia solo le iniziative sociali e/o ambientali in linea con il proprio business, farebbero della CSR il loro modo di fare business e inciderebbero sul miglioramento della società più di quanto ogni altra organizzazione filantropica sia in grado di fare.
Hai da poco iniziato un nuovo lavoro. Quali sono le tue impressioni ora che sei entrata nel mondo del lavoro?
Ho terminato da poco uno stage. Devo dire che è stata un’esperienza altamente formativa, sia dal punto di vista professionale che personale. Quello che mi sento di dire, a chi come me si è appena affacciato al mondo del lavoro, è che ci vuole spirito di adattabilità. Le esperienze “entry level” non sono da disprezzare e da scartare, sono anzi un modo per potersi fare le ossa e ambire ad una posizione “senior”, raggiungibile solo in seguito ad esperienze non più solo teoriche, come quelle maturate durante il percorso accademico, ma concrete.
Un consiglio che mi sento di dare ai miei coetanei, ma che ripeto ogni giorno a me stessa, è che non bisogna ma smettere di informarsi, di tenersi aggiornati e di studiare se si vuole essere davvero competitivi sul mercato del lavoro.